"Valerio, ma quella cicatrice ce l'hai sempre avuta?". S. esce con questa domanda inaspettata, durante una chiacchierata al lavoro. E mi ricordo improvvisamente di questo episodio della mia vita, nascosto nella memoria nonostante sia evidente il segno che ha lasciato sul mio viso, per sempre; un segno permanente, anche se non così visibile da deturpare il mio viso così angelico.
Voi direte che di solito gli angeli hanno i boccoli biondi, ma sono consuetudini iconografiche ormai superate: adesso va di moda il rosa.
"No, è trent'anni che ce l'ho. E' una bella storia, un giorno la scriverò". Non posso fare promesse da marinaio a S., è una ragazza troppo dolce per farle alcun torto.
Questa storia è rimasta lì, da scrivere, per almeno otto anni. Sarebbe anche ora di mantenere la promessa, no? O di arruolarsi in Marina.
Avevo dodici anni e una tuta nuova. Alto e magrissimo, con una foresta di capelli in testa e nessun pelo in faccia. Come oggi, insomma.
La zia Amelia era a casa da sola in quei giorni e la cosa le pesava.
Il figlio Ernesto e la sua famiglia, che vivevano nella stessa casa, erano andati in ferie per qualche giorno.
Abitava vicino al bosco, lontana dalle luci della strada. Effettivamente era un po' inquietante, per una donna anziana, passare la notte da sola in un posto così isolato, anche se all'epoca Oggiona, il paese dove vivevamo, era un posto sicuro e i furti erano una rarità improbabile.
Mio padre mi chiese di dormire da lei e io accettai volentieri.
La zia Amelia era in realtà la zia di mio padre. Era vedova da qualche anno: lo zio Giacomo morì quando avevo quattro anni; la rampa del garage di casa sua, durante il funerale, è uno dei miei primi ricordi.
La zia Amelia e lo zio Giacomo erano leggendari.
Si dice che lo zio Giacomo fosse dotato di una forza impressionante: un giorno, lui e un amico, sollevarono un cavallo recalcitrante e lo trasportarono a spalla fuori dalla stalla. Un'altra volta, spostò da solo un palo che in quattro o cinque non riuscivano a muovere. Storie o leggende? Chi lo sa, di sicuro era un uomo forte, come mio nonno, suo fratello, che anche lui ne ha fatte parecchie, ma questa è un'altra storia.
La zia Amelia era anch'essa leggendaria, ma per altri motivi: una donna d'altri tempi, sorriso aperto e irresistibile, fisicamente imponente, gran sacerdotessa dell'orto e della cucina.
A detta di mio padre, la più grande interprete della preparazione della cassoeula, un piatto tipico delle mie parti a base di verze e parti meno nobili del maiale, la cui digestione richiede uno sforzo titanico, ma che tutti celebrano come delizioso. Io l'ho mangiata una volta sola e non mi è piaciuta, ma non era quella della zia. Prima o poi le dovrò dare un'altra possibilità.
Comunque posso testimoniarlo: era una cuoca straordinaria. Ricordo che una volta, forse il giorno dopo la vicenda che poi devo riprendere a raccontare, mi preparò un pollo arrosto. Il pollo era stato amorevolmente cresciuto nel suo pollaio, curato personalmente da lei e da Ernesto. Misi in bocca il primo boccone, davvero delizioso, ma ero un po' stupito del fatto che tra la pelle e la carne ci fosse uno strato spesso mezzo centimetro di materia simile all'olio quando sta al freddo. Ero un ragazzino un po' sospettoso e le chiesi che cosa fosse. Lei mi guardò e con quel sorriso da nonna allegra mi disse "E' grasso". Il pollo era così ben pasciuto che aveva messo su pancia e forse era morto d'infarto salendo la scaletta del pollaio. Misi da parte i miei sospetti e mangiai tutto insieme. Ero piccolo e non sapevo ancora di preciso che cos'era un orgasmo, ma da allora ne ebbi un'idea piuttosto chiara.
Ho scritto un sacco di cose e non ho ancora cominciato la storia. Lascio un po' di righe vuote perché possiate metterci le vostre proteste.
Erano le otto o le nove della sera - chi si ricorda - ed era ora di andare. Avevo la tuta nuova, un regalo dello zio Federico.
Qualche lettore storcerà il naso nel leggere "lo zio" e "la zia", ma noi varesotti mettiamo l'articolo davanti a tutto tranne che a Dio. Ripensandoci, i nostri vecchi non usavano mai la parola "Dio", dicevano "ul Signur" o "ul Padreterno". Forse era un escamotage per mettere l'articolo anche lì.
La tuta era blu con una enorme fascia bianca su tutto il torace. Ripensandoci forse non era bellissima, ma ero piccolo, non certo ricco e di poche pretese.
Quando ero ragazzino, appena avevo una cosa nuova, la dovevo usare subito, era obbligatorio, e allora pensai di andare dalla zia in tuta. E poiché ero in tuta, misi le scarpe da ginnastica. Dodici anni, una strada, una tuta e un paio di scarpe da ginnastica: il passaggio alla decisione di fare il tragitto tutto di corsa fu automatico. Si trattava di un chilometro e mezzo, niente di che per uno che giocava ore e ore tutti i giorni in strada, all'oratorio, a scuola, e non ai videogiochi.
Il percorso prevedeva il passaggio in una stradina non asfaltata, un passaggio corto, un centinaio di metri, ma praticamente al buio. La strada cominciava subito dopo il giardino di uno dei tre palazzi con più di due piani che all'epoca esistevano, appena costruito, tutto color marrone fango e con la cancellata in ferro, anch'essa dipinta di marrone scuro. All'epoca andava di moda questo colore: meno male che le mode passano.
Ero quasi arrivato a questo punto del percorso quando mi si affianca un tipo grande e grosso con una vespa bianca e il casco nero, che comincia a tagliarmi la strada e a pronunciare frasi incomprensibili. E' già calata la sera e non c'è anima viva in giro, anche se non è tardi. Ma nel paesino dove abitavo, non è che ci fosse chissà che movimento. Non come oggi che... è uguale ad allora. Beh, il tipo è veramente grosso e ce l'ha con me. Comincio fieramente a farmela sotto, ma continuo a correre. Mi viene in mente un'idea che sembra geniale: farò finta di correre dritto sulla strada principale e poi, d'improvviso, girerò nella stradina cercando di seminarlo. E' buia la strada, ma tutta dritta e per sicurezza metterò le mani avanti: no, non in senso figurato, metterò le mani avanti così da colpire eventuali ostacoli con le mani e non con la faccia. Non so come, ma mi sembrava un buon piano.
Manca poco all'ingresso della strada, è quasi finito il giardino, VADO!
Corricorricorricorricorri...SBRAAAANG!!!
Faccio fatica a riprendermi. La botta è stata fortissima. Le mani si sono infilate perfettamente tra le sbarre della cancellata e sono andato dritto dritto con il ginocchio ed il sopracciglio contro le sbarre stesse. Sto sanguinando, imprecando contro la malasorte e pensando a che cosa devo fare. Mi affaccio al bar sotto il palazzo ma non ho il coraggio di entrare, mi sto vergognando come un dodicenne che non sa se deve vergognarsi, ma nel dubbio lo fa. Il tipo in Vespa è ancora lì, sulla strada, mi guarda e parla, ma non capisco. Allora passo a tastoni la cancellata finché non finisce, e poi corro, corro verso casa della zia, suono il campanello, entro, sento l'urlo, poi le domande "Che cosa hai fatto? Che cosa è successo? Stai bene? Vieni che ti disinfetto...".
Sono salvo, ammaccato, dolorante, spaventato, ma al sicuro.
Che venerdì sera di...
Passai la serata e la notte dalla zia, che si prese amorevolmente cura di me. Alla fine non mi ero fatto molto, solo un'escoriazione sul ginocchio e un taglio sul sopracciglio, che probabilmente avrebbe avuto bisogno di un punto, ma all'epoca non si andava troppo per il sottile. Ecco perché ancora oggi ho quel segno in faccia.
Rimasi a pranzo, e credetemi, quel pranzo valeva tutte le botte e la paura. Certo, l'avrei avuto anche gratis, ma insomma, non si può avere tutto dalla vita.
La tuta insanguinata tornò come nuova. Chissà che fine ha fatto. Probabilmente è nascosta in un cassetto recondito della casa di mia madre. che non butta via niente, oppure è stata regalata a un altro bambino che ne avrà fatto uso ed abuso come è giusto che sia.
La domenica mattina andai a Messa. Ero un bravo bambino, che credete? Tutti mi guardavano strano per l'occhio nero e la crosta sul sopracciglio, ma almeno in Chiesa si fecero i fatti loro. Alla fine della Messa avrei dovuto raccontare quanto accaduto, e probabilmente questa storia sarebbe diventata epica, in un paese di duemila abitanti in cui non succedeva mai niente. L'avrebbero saputa tutti, e magari qualche mamma apprensiva avrebbe preso provvedimenti per evitare che i figli potessero incontrare quel maniaco sulla Vespa.
Di fianco a me, in chiesa, il mio amico Moreno, una vera sagoma, un ragazzo d'oro che mi onora ancora della sua amicizia, dopo più di trent'anni. Aveva - ed ovviamente ha - due anni più di me, e ne abbiamo passate tante insieme. Era anche alto e robusto, all'epoca ancora più alto di me, ma dopo un paio d'anni lo raggiunsi e superai. La sua mole invece non l'ho mai raggiunta: aveva una forza prodigiosa, sotto quel corpaccione apparentemente grasso, ma in realtà pieno di muscoli.
All'epoca due anni erano tanti, io avevo dodici anni e una bici, lui a quattordici era già motorizzato, con mia somma invidia (in senso buono).
Mi guardava più strano degli altri, ma questo lo intesi senza capirne subito il motivo. Senza farsi vedere troppo, mi chiedeva se stavo bene, se avevo male, se avevo preso solo una botta in faccia o qualcos'altro. "Dai, che gentile", pensai.
Poi chiese: "Ma perché sei scappato l'altra sera?"
E allora costruii un puzzle immediatamente nella mia testa, la Vespa bianca, il casco diventato obbligatorio da pochissimo, la figura imponente, le parole incomprensibili perché la visiera era giù, il tagliarmi la strada per attirare la mia attenzione e salutarmi.
"Eri tu? Veramente eri tu? A momenti mi ammazzavo!!!"
Era lui sì, il mio amico, che voleva salutarmi e mi aveva spaventato a morte! Era lui, porcatroia, e mi ero spiaccicato la faccia contro una cancellata a causa sua, e della mia fottuta paura!
Non voleva ridere, ma non poteva trattenersi, e io ero "incazzato come una bestia" (altra nostra tipica espressione di quegli anni), ma risi anch'io, mentre gli altri ci guardavano stupiti, ma poi, contagiati, sogghignarono anche loro, perché si sa, le risa sono contagiose. In quella zona della chiesa ondeggiavamo tutti insieme, soffocando le risate, noi due che sapevamo, e gli altri che non avevano idea di che cosa fosse successo, ma ridevano lo stesso.
Il prete, qualche tempo dopo, mi diede parecchie avemaria come penitenza per il vaffanculo che tirai a Moreno, sottovoce ma perentorio, dentro la chiesa.
E all'uscita dalla Messa dissi a tutti che avevo sbattuto contro uno spigolo, a casa. Fine dell'epica, fine della leggenda, le mamme potevano stare tranquille.
Quando ci incontriamo, tra vecchi amici, ogni tanto tiriamo fuori questa storia e ridiamo come imbecilli. Solo che adesso la storia la sanno tutti, e quindi ridiamo per un motivo. E anch'io adesso sorrido, pensando a quanto è successo, e a quando ne ridiamo insieme.
Scommetto che anche tu, che sei riuscito ad arrivare in fondo a questa storia di paese, di paure incontrollabili, di geometrie antipatiche e di perfide cancellate, ora stai sorridendo, e pensi a quanto si è meravigliosamente ingenui, fantasiosi e resistenti contro le botte della vita, quando si hanno dodici anni.
Voi direte che di solito gli angeli hanno i boccoli biondi, ma sono consuetudini iconografiche ormai superate: adesso va di moda il rosa.
"No, è trent'anni che ce l'ho. E' una bella storia, un giorno la scriverò". Non posso fare promesse da marinaio a S., è una ragazza troppo dolce per farle alcun torto.
Questa storia è rimasta lì, da scrivere, per almeno otto anni. Sarebbe anche ora di mantenere la promessa, no? O di arruolarsi in Marina.
Avevo dodici anni e una tuta nuova. Alto e magrissimo, con una foresta di capelli in testa e nessun pelo in faccia. Come oggi, insomma.
La zia Amelia era a casa da sola in quei giorni e la cosa le pesava.
Il figlio Ernesto e la sua famiglia, che vivevano nella stessa casa, erano andati in ferie per qualche giorno.
Abitava vicino al bosco, lontana dalle luci della strada. Effettivamente era un po' inquietante, per una donna anziana, passare la notte da sola in un posto così isolato, anche se all'epoca Oggiona, il paese dove vivevamo, era un posto sicuro e i furti erano una rarità improbabile.
Mio padre mi chiese di dormire da lei e io accettai volentieri.
La zia Amelia era in realtà la zia di mio padre. Era vedova da qualche anno: lo zio Giacomo morì quando avevo quattro anni; la rampa del garage di casa sua, durante il funerale, è uno dei miei primi ricordi.
La zia Amelia e lo zio Giacomo erano leggendari.
Si dice che lo zio Giacomo fosse dotato di una forza impressionante: un giorno, lui e un amico, sollevarono un cavallo recalcitrante e lo trasportarono a spalla fuori dalla stalla. Un'altra volta, spostò da solo un palo che in quattro o cinque non riuscivano a muovere. Storie o leggende? Chi lo sa, di sicuro era un uomo forte, come mio nonno, suo fratello, che anche lui ne ha fatte parecchie, ma questa è un'altra storia.
La zia Amelia era anch'essa leggendaria, ma per altri motivi: una donna d'altri tempi, sorriso aperto e irresistibile, fisicamente imponente, gran sacerdotessa dell'orto e della cucina.
A detta di mio padre, la più grande interprete della preparazione della cassoeula, un piatto tipico delle mie parti a base di verze e parti meno nobili del maiale, la cui digestione richiede uno sforzo titanico, ma che tutti celebrano come delizioso. Io l'ho mangiata una volta sola e non mi è piaciuta, ma non era quella della zia. Prima o poi le dovrò dare un'altra possibilità.
Comunque posso testimoniarlo: era una cuoca straordinaria. Ricordo che una volta, forse il giorno dopo la vicenda che poi devo riprendere a raccontare, mi preparò un pollo arrosto. Il pollo era stato amorevolmente cresciuto nel suo pollaio, curato personalmente da lei e da Ernesto. Misi in bocca il primo boccone, davvero delizioso, ma ero un po' stupito del fatto che tra la pelle e la carne ci fosse uno strato spesso mezzo centimetro di materia simile all'olio quando sta al freddo. Ero un ragazzino un po' sospettoso e le chiesi che cosa fosse. Lei mi guardò e con quel sorriso da nonna allegra mi disse "E' grasso". Il pollo era così ben pasciuto che aveva messo su pancia e forse era morto d'infarto salendo la scaletta del pollaio. Misi da parte i miei sospetti e mangiai tutto insieme. Ero piccolo e non sapevo ancora di preciso che cos'era un orgasmo, ma da allora ne ebbi un'idea piuttosto chiara.
Ho scritto un sacco di cose e non ho ancora cominciato la storia. Lascio un po' di righe vuote perché possiate metterci le vostre proteste.
Erano le otto o le nove della sera - chi si ricorda - ed era ora di andare. Avevo la tuta nuova, un regalo dello zio Federico.
Qualche lettore storcerà il naso nel leggere "lo zio" e "la zia", ma noi varesotti mettiamo l'articolo davanti a tutto tranne che a Dio. Ripensandoci, i nostri vecchi non usavano mai la parola "Dio", dicevano "ul Signur" o "ul Padreterno". Forse era un escamotage per mettere l'articolo anche lì.
La tuta era blu con una enorme fascia bianca su tutto il torace. Ripensandoci forse non era bellissima, ma ero piccolo, non certo ricco e di poche pretese.
Quando ero ragazzino, appena avevo una cosa nuova, la dovevo usare subito, era obbligatorio, e allora pensai di andare dalla zia in tuta. E poiché ero in tuta, misi le scarpe da ginnastica. Dodici anni, una strada, una tuta e un paio di scarpe da ginnastica: il passaggio alla decisione di fare il tragitto tutto di corsa fu automatico. Si trattava di un chilometro e mezzo, niente di che per uno che giocava ore e ore tutti i giorni in strada, all'oratorio, a scuola, e non ai videogiochi.
Il percorso prevedeva il passaggio in una stradina non asfaltata, un passaggio corto, un centinaio di metri, ma praticamente al buio. La strada cominciava subito dopo il giardino di uno dei tre palazzi con più di due piani che all'epoca esistevano, appena costruito, tutto color marrone fango e con la cancellata in ferro, anch'essa dipinta di marrone scuro. All'epoca andava di moda questo colore: meno male che le mode passano.
Ero quasi arrivato a questo punto del percorso quando mi si affianca un tipo grande e grosso con una vespa bianca e il casco nero, che comincia a tagliarmi la strada e a pronunciare frasi incomprensibili. E' già calata la sera e non c'è anima viva in giro, anche se non è tardi. Ma nel paesino dove abitavo, non è che ci fosse chissà che movimento. Non come oggi che... è uguale ad allora. Beh, il tipo è veramente grosso e ce l'ha con me. Comincio fieramente a farmela sotto, ma continuo a correre. Mi viene in mente un'idea che sembra geniale: farò finta di correre dritto sulla strada principale e poi, d'improvviso, girerò nella stradina cercando di seminarlo. E' buia la strada, ma tutta dritta e per sicurezza metterò le mani avanti: no, non in senso figurato, metterò le mani avanti così da colpire eventuali ostacoli con le mani e non con la faccia. Non so come, ma mi sembrava un buon piano.
Manca poco all'ingresso della strada, è quasi finito il giardino, VADO!
Corricorricorricorricorri...SBRAAAANG!!!
Faccio fatica a riprendermi. La botta è stata fortissima. Le mani si sono infilate perfettamente tra le sbarre della cancellata e sono andato dritto dritto con il ginocchio ed il sopracciglio contro le sbarre stesse. Sto sanguinando, imprecando contro la malasorte e pensando a che cosa devo fare. Mi affaccio al bar sotto il palazzo ma non ho il coraggio di entrare, mi sto vergognando come un dodicenne che non sa se deve vergognarsi, ma nel dubbio lo fa. Il tipo in Vespa è ancora lì, sulla strada, mi guarda e parla, ma non capisco. Allora passo a tastoni la cancellata finché non finisce, e poi corro, corro verso casa della zia, suono il campanello, entro, sento l'urlo, poi le domande "Che cosa hai fatto? Che cosa è successo? Stai bene? Vieni che ti disinfetto...".
Sono salvo, ammaccato, dolorante, spaventato, ma al sicuro.
Che venerdì sera di...
Passai la serata e la notte dalla zia, che si prese amorevolmente cura di me. Alla fine non mi ero fatto molto, solo un'escoriazione sul ginocchio e un taglio sul sopracciglio, che probabilmente avrebbe avuto bisogno di un punto, ma all'epoca non si andava troppo per il sottile. Ecco perché ancora oggi ho quel segno in faccia.
Rimasi a pranzo, e credetemi, quel pranzo valeva tutte le botte e la paura. Certo, l'avrei avuto anche gratis, ma insomma, non si può avere tutto dalla vita.
La tuta insanguinata tornò come nuova. Chissà che fine ha fatto. Probabilmente è nascosta in un cassetto recondito della casa di mia madre. che non butta via niente, oppure è stata regalata a un altro bambino che ne avrà fatto uso ed abuso come è giusto che sia.
La domenica mattina andai a Messa. Ero un bravo bambino, che credete? Tutti mi guardavano strano per l'occhio nero e la crosta sul sopracciglio, ma almeno in Chiesa si fecero i fatti loro. Alla fine della Messa avrei dovuto raccontare quanto accaduto, e probabilmente questa storia sarebbe diventata epica, in un paese di duemila abitanti in cui non succedeva mai niente. L'avrebbero saputa tutti, e magari qualche mamma apprensiva avrebbe preso provvedimenti per evitare che i figli potessero incontrare quel maniaco sulla Vespa.
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Di fianco a me, in chiesa, il mio amico Moreno, una vera sagoma, un ragazzo d'oro che mi onora ancora della sua amicizia, dopo più di trent'anni. Aveva - ed ovviamente ha - due anni più di me, e ne abbiamo passate tante insieme. Era anche alto e robusto, all'epoca ancora più alto di me, ma dopo un paio d'anni lo raggiunsi e superai. La sua mole invece non l'ho mai raggiunta: aveva una forza prodigiosa, sotto quel corpaccione apparentemente grasso, ma in realtà pieno di muscoli.
All'epoca due anni erano tanti, io avevo dodici anni e una bici, lui a quattordici era già motorizzato, con mia somma invidia (in senso buono).
Mi guardava più strano degli altri, ma questo lo intesi senza capirne subito il motivo. Senza farsi vedere troppo, mi chiedeva se stavo bene, se avevo male, se avevo preso solo una botta in faccia o qualcos'altro. "Dai, che gentile", pensai.
Poi chiese: "Ma perché sei scappato l'altra sera?"
E allora costruii un puzzle immediatamente nella mia testa, la Vespa bianca, il casco diventato obbligatorio da pochissimo, la figura imponente, le parole incomprensibili perché la visiera era giù, il tagliarmi la strada per attirare la mia attenzione e salutarmi.
"Eri tu? Veramente eri tu? A momenti mi ammazzavo!!!"
Era lui sì, il mio amico, che voleva salutarmi e mi aveva spaventato a morte! Era lui, porcatroia, e mi ero spiaccicato la faccia contro una cancellata a causa sua, e della mia fottuta paura!
Non voleva ridere, ma non poteva trattenersi, e io ero "incazzato come una bestia" (altra nostra tipica espressione di quegli anni), ma risi anch'io, mentre gli altri ci guardavano stupiti, ma poi, contagiati, sogghignarono anche loro, perché si sa, le risa sono contagiose. In quella zona della chiesa ondeggiavamo tutti insieme, soffocando le risate, noi due che sapevamo, e gli altri che non avevano idea di che cosa fosse successo, ma ridevano lo stesso.
Il prete, qualche tempo dopo, mi diede parecchie avemaria come penitenza per il vaffanculo che tirai a Moreno, sottovoce ma perentorio, dentro la chiesa.
E all'uscita dalla Messa dissi a tutti che avevo sbattuto contro uno spigolo, a casa. Fine dell'epica, fine della leggenda, le mamme potevano stare tranquille.
Quando ci incontriamo, tra vecchi amici, ogni tanto tiriamo fuori questa storia e ridiamo come imbecilli. Solo che adesso la storia la sanno tutti, e quindi ridiamo per un motivo. E anch'io adesso sorrido, pensando a quanto è successo, e a quando ne ridiamo insieme.
Scommetto che anche tu, che sei riuscito ad arrivare in fondo a questa storia di paese, di paure incontrollabili, di geometrie antipatiche e di perfide cancellate, ora stai sorridendo, e pensi a quanto si è meravigliosamente ingenui, fantasiosi e resistenti contro le botte della vita, quando si hanno dodici anni.
3 commenti:
A raccontare della mia cicatrice scriverei la divina commedia. E bambini di tante generazioni mi odierebbero per i secoli a venire C;
Grazie Zio Vale
Quando lo Zio Vale pubblica cose, è bello avere il tempo di leggerle tutte d'un fiato. Non sempre però ci si riesce
Grazie Andrea. Un abbraccio.
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